I Luoghi del Mutamento

La serie dal titolo “I Luoghi del Mutamento”, iniziata nel 1988 e ancora in corso, è indubbiamente il progetto di maggiore complessità e anche il più noto di Andrea Abati: una serie di immagini di grande formato dove urgente è l’attenzione al paesaggio industriale contemporaneo e ai mutamenti della realtà sociale. Nelle fotografie della serie “I Luoghi del Mutamento”, Abati ha voluto come luogo di indagine Prato, la sua città natale, nella quale l’intrusione dell’industria nel contesto cittadino è forte e evidente. Abati ha fotografato la demolizione e ricostruzione di edifici industriali di Prato, dandone una visione lucida, serena e apocalittica, come quasi rovine di guerra, creando immagini dai colori stridenti, che fanno emergere i contrasti dei volumi e danno nuova linfa agli spazi industriali. La rapidità, che le necessità della società contemporanea impongono alla produzione e al ritmo del lavoro, fa sì che la realtà industriale sia uno specchio fedele dei cambiamenti in atto. Gli stabilimenti, colti nella dimensione di cantieri aperti o di architetture allo stato di abbandono, acquistano in tal senso una valenza particolare, sono espressione di uno stato nel quale velocemente passato, presente e futuro si intrecciano e velocemente si danno il passo. Fissare con la magia dell’obiettivo fotografico il processo del mutamento permette di cogliere atmosfere, elementi naturali e non, che sarebbero altrimenti negate alle nostre possibilità percettive. L’opera Prato, Viale Galilei del 1990, di questa serie, è entrata a far parte, nel 1998 della collezione della Fondazione Malerba di Milano, e nel 2019 della collezione del Centro Pecci di Prato.

“Diverso è il modo di essere concerned photographer in questo tempo, rispetto alle stagione in cui ferma era la logica di racconto, di evidenza prosastica e talora declamata. Raccontare il dramma e dar corpo a un’immagine drammatica, per via di evidenze autonome fondate tutte nel linguaggio, è cosa ben diversa, e nota ormai. Andrea Abati è fotografo di questo tempo ultimo, benché mille segni dicano di una sua docta ignorantia che fa trapelare una padronanza sapiente dell’identità storica della fotografia: padronanza d’amore, beninteso. Abati racconta la città, e quella sua vita fatta non dell’intrigarsi di esistenze, ma dei segni che si suppongono stabili dell’architettura. L’architettura come traccia e desiderio dell’uomo, è il suo trascorrere, per mutamenti spesso ciechi di destino, trascorrendo il vivere che la abita. La casa rustica, il condominio e il centro commerciale. Le macerie: crolli “non edificanti” – cito a proposito, e contrario, il titolo di una serie bellissima di Ico Parisi – e crolli di una identità di cultura e di vita che si sapeva, mutante in una identità che può solo contarsi, dirsi in quantità. Negli anni Cinquanta, le macerie, il disordine urbano – penso a certi lavori crudi e acuminati di Ugo Mulas – implicavano una tensione esistenziale che si avvertiva capace di rigenerazione, un valore di vita vissuta da una collettività protagonista, nel bene e nel male, della propria storia. Di questo cemento, di questi ferri, resta ora solo la vacanza qualitativa di materie adespote, merci cui subentrano merci, nulla più, nulla meno. Abati applica a questo motif non gli schemi retorici del patetico o dell’ideologico, bensì uno sguardo acuto sino a ritrovarsi straniato, rappreso in evidenze che si fanno metafisiche, d’una metafisica che non suppone altro che una deriva del senso, uno svuotamento e uno scacco d’esistenza, di cui queste forme desolate si fanno in sé, per costituzione linguistica, arbitre e testimone. Il disagio del colore, dalle acidità virate in toni ansimanti e perplessi, e quelle luci di notturno spinte sino a una sorta di visionarietà d’onirico malato; e quel comporre affollato, serrato, a tentare con lucidità disperante la possibilità di un senso. Abati, non grazioso non antigrazioso, rinuncia alla pura ostensione del dato visivo pur carica di per sé di una forza significativa convincente, e assume all’arbitrio autoriale, all’iperdeterminazione non celibe dello sguardo, la responsabilità espressiva tutta. Figlio, in ciò, più della desolazione emozionante di un Edward Hopper, o di un Charles Sheeler, o del Cesare Peverelli surreale delle Villes, che della pur consistente vicenda della foto metropolitana nella fotografia novecentesca.” Flaminio Gualdoni, testo per la mostra personale a Dryphoto, 1999

In allegato il pdf del comunicato stampa in italiano e inglese della mostra
Andrea Abati, I Luoghi del Mutamento, a cura di Vittoria Ciolini
Sale affrescate Palazzo di Giano, Pistoia
10 novembre / 8 dicembre 2014

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