Gente del Corno d’Africa, 1999

Gente del Corno d’Africa, 1999
Preziosi ricordi, la tragedia della visione, installazione video, chiesino S. Ambrogio, Prato, 1999

Abati realizza delle immagini fotografiche e una numerosa serie di interviste in VHS a una parte della comunità del Corno d’Africa che viveva alla fine del ‘900 a Prato e Firenze. Una selezione di interviste scorreva simultaneamente in alcuni monitor in mostra, altre erano conservate in due robuste casseforti chiuse.

“Gente del Corno d’Africa” – fotografie e video di Andrea Abati 

Grazie ad una sorta di “sguardo prolungato”  tramite la lunga posa, negli scenari urbani fotografati da Andrea Abati l’immagine fissa una durata, un intervallo di tempo nel quale si svolgono dinamiche e movimenti di esseri umani. In queste foto la presenza dell’uomo è spesso una presenza fugace, che non si dà al riconoscimento. Il singolo personaggio ritratto può restare l’anonimo membro di una massa umana in movimento, proprio come si presenta troppo spesso alla nostra percezione quotidiana della realtà.

Bisogna fermarsi, prolungare la posa dello sguardo per vedere le ragioni più riposte che hanno spinto Abati a fissare queste presenze in immagine. La prima impressione che queste immagini suscitano, cioè quella di trovarsi di fronte a qualcosa di simile alla casualità degli incontri quotidiani, è esattamente ciò che il fotografo vuole; il resto dipende dall’attenzione dello spettatore.

Ogni tanto può succedere che lo sguardo di Abati si incontri casualmente con lo sguardo di uno di questi uomini, donne, bambini, il fatto non ha nulla a che fare con la messa in posa, ed è l’istante in cui si verifica una forma di comunicazione più diretta, di scambio. Allora tutti gli sguardi, quello del fotografo, del soggetto ed infine quello dello spettatore, in un certo modo “forano” la pellicola. Ecco allora che l’incontro anonimo si trasforma in rapporto, gli individui tra loro si percepiscono. La presenza umana si manifesta, e più ci si ferma a scrutare la situazione e il personaggio in essa, tanto più si intensifica la percezione di questa presenza.

Nessuna delle immagini di Andrea Abati dispiega il suo contenuto ad uno sguardo frettoloso di un interesse superficiale, estetico. Ognuna di esse richiede l’impegno di uno spettatore che vuole vedere e che quindi assume un atteggiamento attivo, partecipe.

Nella realtà urbana contemporanea, per una specie d’economia, la nostra abitudine percettiva ci porta spesso all’ “identificazione” rapida di una situazione nelle sue grossolane coordinate di “situazione” – in realtà ci limitiamo ad una valutazione piuttosto istintiva del grado di pericolo o piacere che ci si potrebbe portare -; ma per comprenderne l’origine, il senso, la portata – cioè per “riconoscerla” – bisogna fermarsi a guardare e analizzare. Per sapere bisogna sempre prendersi il tempo di domandare, ed è soltanto grazie all’interesse che si è disposti a trovare, nella fretta urbana, questo tempo. Assumendo invece davanti alla realtà che ci circonda l’atteggiamento passivo di uno spettatore e rinunciando a porre domande, si rischia di percepire e poi di vivere il mondo un giorno o l’altro come un caotico accumulo di fatti e eventi non più decifrabili, non più dotati di senso, privati delle basi della comunicazione; un insieme di gratuiti fatti anonimi.

Davanti all’installazione video di Andrea Abati, “La Tragedia dell’Ascolto”, che affianca la mostra delle fotografie, viene messo alla prova esattamente questa differenza tra l’attenzione interessata e la percezione passiva: tre monitor mostrano delle persone che parlano delle loro condizioni di vita, le mostrano a ritmi varianti tra l’alternanza e la simultaneità, con una casualità preorganizzata.  Con la proiezione simultanea le loro voci si confondono, mentre le immagini nei televisori collocati ad una distanza di ca. 2 metri tra loro sono visibili in simultaneità  solo da distanza maggiore. Tutto ciò assomiglia -perché lo riproduce volutamente- alla confusione audiovisiva che caratterizza i nostri luoghi di vita quotidiana e che ha condotto a questa nostra percezione distratta. Ogni tanto però alcuni video si interrompono, i televisori mostrano la superficie silenziosa della tv non sintonizzata, mentre il racconto del personaggio sul terzo schermo continua. Improvvisamente si percepisce la voce di un individuo ed è un fatto quasi naturale mettersi in ascolto. Quando poi l’altro, o gli altri due video rientrano in funzione, mentre magari il terzo si spegne a sua volta, ci si avvicina istintivamente all’uno o all’altro, per ascoltarne, percepirne il racconto. Nulla di sconvolgente viene narrato o mostrato, si tratta semplicemente di individui che raccontano la loro -particolare, personale- visione del mondo. Sono persone di origine italo-etiope o italo-eritrea,  “gente del Corno d’Africa” che vive in Italia, cittadini italiani da sempre anche se nati altrove. Per sentirli, in questa installazione video così come nella realtà quotidiana, bisogna prendersi il tempo, accostarsi a loro di qualche passo e ascoltare invece che sentire, vedere invece che guardare. E’ tutto li, si tratta della percezione attiva dell’altro che è, o può essere, l’inizio di una conoscenza, di una comunicazione vera, di uno scambio. Il lavoro video di Andrea Abati riflette questo passo di avvicinamento, costringendoci a svolgerlo fisicamente, tenta di renderlo cosciente.

“Se la foto non è buona, non sei andato abbastanza vicino”, sosteneva Robert Capa. Trasponendo il concetto a noi spesso solo spettatori di questo mondo si può parafrasare: “se non capisci, non sei andato abbastanza vicino”. Avvicinarsi presuppone sempre generosità nel concedere il proprio tempo e l’interesse, spesso richiede anche coraggio.

Barbara Weigel, Monaco,  maggio 1999